mercoledì 18 aprile 2012

Civitas. Rivista quadrimestrale di ricerca storica e cultura politica, Anno VIII- Nuova serie - n. 3/2010 – n. 1/2011



Alle origini:
Roma, l’Europa, la Chiesa

(di Laura Balestra)



Questo breve saggio tenta di delineare una visione storico-filosofica circa la definizione del concetto di identità e di Europa, quest’ultima intesa come una sorta di “sinecismo o sincretismo” di nozioni o entità variabili che, da una forma mentis antica tracciano soluzioni nuove per il futuro, riattualizzabili dall’antichità classica greca e romana e dall’ebraismo.
Ponendo il concetto di Europa, inteso in senso filosofico e spirituale, tra Roma e la Chiesa si manifesta la volontà di individuarne il comune denominatore che affratelli e definisca il proprium di ognuna di esse. Stabilire l’identità di qualcosa pone sempre dinanzi a un paradosso, che definisce il Sé identitario solo distinguendolo in relazione al suo non-essere o al suo essere-altro-da-sé. Il paradosso risiede proprio nella tensione esistente tra forze discordi unite in concordia.
Qual è l’identità d’Europa? Cos’è l’Europa filosoficamente intesa? Cosa Roma? E la Chiesa?


1. Rémi Brague e la “voie romaine”


L’identità dell’Europa non è né greca, né cristiana, né araba, né germanica. La sua unità è Roma, ma solo nel senso che essere europei significa essere come i Romani, i quali con suprema umiltà si sono adattati ad essere una struttura di trasmissione culturale, accettando di porsi dopo i Greci e dopo gli Ebrei, rassegnandosi ad occupare solo il secondo posto: che vuol dire romanità? Significa secondarietà, attitudine del ricevere e del trasmettere, del sapersi se stessi riconoscendo la propria identità nella tensione tra un classicismo da assimilare e una barbarie (interiore) da sottomettere: significa poter accedere a ciò che è proprio soltanto attraverso ciò che è a noi straniero. La romanità così intesa – come Secondarietà – non è di per sé una identità, ma è la disponibilità a costruirla, è l’attitudine che rende capaci – come dice Kant – di “pensarci al posto di un altro” di essere cattolici nel senso non confessionale, ma greco del termine: cioè “universali”[1]


È riassunta qui, in breve, attraverso le parole stesse dell’autore, Rémi Brague, filosofo e studioso del mondo arabo, greco, ebraico e medievale all’Università di Parigi e Monaco, una delle teorie più straordinarie e penetranti sul modus operandi dell’impero romano e, in seguito, del Cristianesimo: la teoria della secondarietà o “voie romaine”, contenuta nel saggio Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa.
Cosa si intende con il concetto di Romanitas quale substratum fondativo del Cristianesimo e dell’Europa stessa? Lungo quale cammino conduce la “via romana”? Perché Roma è “seconda” rispetto ai popoli di cui deteneva il dominio e in che senso lo era? E, successivamente, quale riverbero significativo e paradigmatico essa andò a riflettere sulla susseguente nascente Ecclesia? “Romanità” è, per Brague, «la situazione di secondarietà rispetto a una cultura precedente».[2] Ogni impero tende all’espansione e al controllo assoluto in campo militare, politico e religioso dei territori assoggettati e, seppure Roma non si sottraeva a questo standard operativo, ciò che la svincola da giudizi negativi circa il suo eventuale dominio dispotico fra le colonne d’Ercole e la Parthia, è la relazione organica e secondaria stabilita fra il centro e la periferia. Scrisse il poeta latino Orazio all’indomani della conquista romana dell’Achaia: «Graecia capta ferum victorem cepit».[3] La Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore. Che vincitore è un conquistatore che si lascia conquistare dalla sua conquista? Un saggio vincitore di certo, che seppe riconoscere con umiltà la propria inferiorità, rendendosi disponibile alla ricezione di quanto di buono provenisse dalle altre culture con cui entrava in contatto. L’impero di Roma era un impero globale, senza connotazioni governative ascrivibili a uno Stato nazionale, a una monarchia assoluta, a una dittatura o a un regime totalitario. Poteva essere tutto questo, ma era anche altro. Un impero di sincretismi in cui spagnoli, dalmati, illirici, siriaci, africani occuparono il trono di Augusto, senza distinzioni di razze, etnie, religione. Oggi sarebbe forse impensabile, o desterebbe quanto meno perplessità, magari disorientamento, almeno nello Stato italiano, che un civis d’Europa, non italiano, o un extra-comunitario di cittadinanza italiana, diventi Presidente del Consiglio. Non così per la presidenza della Comunità europea, non così per il soglio pontificio. La politica europea non è qui in discussione, interessa maggiormente osservare in che modo l’“eredità secondaria romana” costituì suo epigono la Chiesa. Roma amministrava differenze, alterità e, nel riconoscersi fiera vincitrice conquistata, essa imponeva sì le sue leggi, ma era aperta alla ricezione, all’assimilazione e alla trasmissione di una cultura non propria, Altra, rispetto ad un’identità che non si costituiva se non nel processo indefinito di diffusione di sé, ricezione e assimilazione dell’altro, trasmissione del nuovo, di quel sincretismo organico creatosi. In tal senso Roma è molto diversa dalla Grecia, dalla quale pure si sentì capta. L’identità greca si delinea potentemente nel corso delle guerre persiane, quando l’Altro, il persiano, disvelò alle poleis la loro reale essenza: l’eleutheria. L’alieno, l’estraneo, ciò che è Altro rispetto a un Sé definito o in via di definizione, in genere crea turbamento ed è fonte di spavento, in quanto in esso «un tratto familiare viene riconosciuto per negationem».[4] L’Altro è ciò che minaccia la totalità della nostra identità, perché nella relazione negativa che stabilisce, dimostra la parzialità, la non-autonomia, la dipendenza di ciò che, prima del contatto alteritario, era ritenuto assoluto e totalizzante: l’Io sono. La differenziazione è dunque la prima categoria declinante la definizione del Sé identitario, così come sostenne Federico Chabod nel saggio Storia dell’idea di Europa laddove, nel rintracciare l’origo prima e la genesi della “coscienza d’essere europei” da parte dei nostri avi, ascrisse alla contrapposizione operata dal pensiero greco fra “Europa” e “Asia” nel corso delle guerre persiane e nell’età di Alessandro Magno, il canone primo d’interpretazione coscienziale di quell’antica “Europa” libera da ogni asservito dispotismo asiatico.[5] E, in tal senso, le successive relazioni oppositive fra romano-barbaro, pagano-cristiano costituirono le vie di un processo identificativo e definitivo di una realtà in divenire. In una situazione di reciprocità tra l’identità e l’alterità può tuttavia emergere anche un fattore positivo che, nella fattispecie, fu raccolto e custodito da Roma, la quale in una dimensione culturale in fieri, quale era quella di un popolo di pastori, guerrieri, ingegneri sanza lettere, non accusò timore di alcun genere nel suo rendersi victa e victrix. I Romani seppero accogliere l’alterità, depotenziandola, per il tramite dell’hospitalitas anticamente intesa, della sua matrice ostile e avversa in quanto di-versa. Le componenti straniere, ospitate e diminuite nella loro hostilitas-diversitas, manifestavano i loro benefici effetti, la loro philia a coloro che, victores philoxenoi, le avevano accolte nell’alveo della secondarietà sapiente. Dominare lasciandosi dominare, accrescere la propria potenza non celando le proprie debolezze, questo sperimentò Roma e, successivamente, la Chiesa stessa raccolse la secondarietà della Romanitas, “battezzando” quanto del mondo antico a lei precedente fosse stato utile a realizzare la facies universale, cattolica, che ne costituisce tuttora l’identità.[6] Come sostiene Brague, al pari dell’Impero romano, la Chiesa conservò il meglio della cultura con cui entrò in contatto.
Pensiamo al diritto, alla filosofia, alla letteratura antica, non solo romana, ma anche ebraica e greca, che sono alla base dello sviluppo ideologico del Cristianesimo, che le offrirono quell’integumentum deittico intuibile al mondo nel quale si stava presentando e diffondendo: «la Chiesa cattolica ha funzionato storicamente come luogo di conservazione del paganesimo nella cultura europea».[7]
Se, dunque, per “romanità” si intende la capacità di farsi secondi riconoscendo la superiorità culturale di chi precede, una superiorità da accogliere, non distruggere o soffocare, va da sé che la successiva cattolicità della Chiesa non poté che strutturarsi su basi secondarie. Secondarietà dell’umano al divino, secondarietà della terra al cielo, secondarietà del temporale allo spirituale, secondarietà del tempo all’eterno. Forse anche secondarietà ideale dell’Ecclesia all’Imperium, intesi rispettivamente come categorie spirituali? Se la cronologia e l’impianto della Chiesa sulle vestigia di Roma manifestano perentorie la loro realtà, le teorie teocratiche del Medioevo fecero poi il resto.



2. Respublica Christiana o Respublica Romana?

La parola d’ordine che campeggia sui vessilli spirituali delle genti d’Europa è: “coscienza d’essere europei”. Ma entro quali fondamenti si definisce una cosciente percezione d’essere ciò che si è?  Considerati gli sviluppi “politicamente corretti” della redazione della Costituzione Europea, va da sé che, al fine di non urtare la sensibilità “spirituale” o la fede di nessuno si possa comunque rintracciare, una comune identità storico-culturale, se non nella Respublica Christiana[8], in quell’ormai innocuo Impero romano, che da un capo all’altro dell’allora mondo conosciuto aveva reso concordi popoli discordi. Roma, dall’VIII secolo a.C. fino alla caduta dell’Impero nel 476 d.C., andando ad estendere il suo dominio progressivamente dall’Italia all’Europa, unì sotto un unico sistema governativo popoli di tradizioni diverse. Dopo la fine della Seconda guerra punica e le vittorie sulle grandi monarchie ellenistiche, l’Urbs sviluppò fattivamente il progetto di un impero ecumenico del quale essa fosse garante e sovrintendente in termini di unità.[9] La compattezza e l’uniformità raggiunte in ambito territoriale, andavano, tuttavia, ben oltre la sfera politica ed economica, contribuendo a creare una koinè culturale che trovava la sua massima concretizzazione nell’adozione di un unico diritto, di un’unica lingua, di un’unica espressione artistica ed architettonica e di un’unica religione per tutto l’Impero. Roma, come già comprese Dante, ebbe ab aeterno la vocazione all’impero universale, katholikos, provvidenziale.[10]
L’Europa di oggi, al di là delle attuali ed evidenti diversità politiche, culturali, economiche e linguistiche, quindi, potrebbe continuamente riscoprire la sua origine fondativa in un passato “laico” rappresentato da Roma. Il fine ultimo sarebbe quello di favorire la comprensione di come ogni particolarismo attuale sia conseguenza del riemergere dei singoli sostrati culturali di ogni nazione rimasti latenti a seguito del processo di romanizzazione, precursore, peraltro, del successivo fenomeno di “cristianizzazione”. E se circa quest’ultima affermazione la politica e il diritto invitano a tacere per evitar polemiche, la filosofia tuttavia può liberamente esprimersi in pensieri e parole, in concetti e teorie, ri-pensando l’Europa della “secondarietà romana” forse o l’Europa “società degli spiriti e grande repubblica di Stati” di Voltaire.[11]
La questione è complessa, molto complessa. L’Europa è unità politica, amministrativa, economica, ma al di sopra di tutto, è unità spirituale, non geografica.  La spiritualità s-confinata di quelle unioni che Greci e Romani tanto amavano concordare dal nuovo all’antico, rintracciando sottili linee rosse originarie e originanti le tradizioni di popoli così distanti tra loro per quanto massimamente vicini, isole diverse di un comune immenso mare che tutte le divide e affratella in un medesimo, universale arcipelago.[12] L’Impero romanizzò l’Oriente e questo, a sua volta, ellenizzò ed orientalizzò Roma e l’Occidente, fondendo insieme il proprio e l’altrui a che si costituisse l’unicum, il Sé, l’Identità. Simile traditio, intesa come meccanismo o via di trasmissione dinamica, in perenne tensione tra l’acquisire, l’essere e il tramandare, costituisce da sempre l’ego sum dei popoli antichi: Ebrei, Greci, Romani e Cristiani, intesi questi ultimi come popolo in senso lato, popolo di Dio.
«Il cristianesimo non ha sentito il bisogno di rifare daccapo ciò che era già ben fatto nel mondo pagano, come il diritto o le istituzioni politiche. […] si è sovrapposto a ciò che esisteva già», innestandosi «su una civiltà già organizzata secondo leggi proprie».[13] Se la questione dell’eredità romana della Chiesa viene posta in termini di assimilazione, cristianamente rivisitata, dei modelli pagani chiediamoci cosa fosse cambiato dal memento mori al sic transit gloria mundi.[14] Cos’era il vescovo di Roma se non il successore dell’imperator? Un nuovo Signore sopraggiunto nelle dissimulate, antiche vesti dell’antico dominatore. E il suo regno? Nient’altro che una sovrana autorità legittimata da una donazione illegittima[15], nonché storicamente falsa, capace di resuscitare un nuovo dominio sulle ceneri di un impero svanito e sopravvissuto lontano, nelle terre d’Oriente. Un nuovo pastore di genti chiamato a governare uomini e anime, popoli e tribù disperse, privo di armi e di eserciti, inerme oppositore alla ferocia straniera delle stirpi d’Oltralpe. Geniale profeta della koinè spirituale e politica, il vescovo di Roma seppe sottomettere ed alleare senza sangue, con lo spirito: la conversione dei barbari. Fedeli. Al suo servizio. Roma di nuovo al centro del potere. E quando al vetusto trionfalismo di un impero in crisi subentrò un senso incombente di dissoluzione e morte, all’attivismo delle arcaiche ideologie politiche successe una torbida passività nei confronti dei grandi e drammatici eventi della storia. Fu in quell’istante che la Roma imperiale venne trasformata, attraverso la Croce e la Chiesa, nella celeste Roma aeterna, degna patria di Cristo e dell’umanità. Il senso preparatorio e provvidenziale del paganesimo e dell’impero divenne prodromo della Provvidenza cristiana. La storicità del nuovo dio, del Dio vero predilesse la propria incarnazione nella pienezza di quel tempo scandito da consoli e imperatori. Dio decise di far incarnare suo Figlio nell’Impero e dell’Impero la Chiesa acquisì l’Esse, la propensione alla cattolicità lato sensu, lo spirito universale di Roma antica.  La Christianitas si erge e si edifica sulla Romanitas, agli eroi classici fanno seguito i martiri, ai templa le cattedrali e la vittoriosa gloria dell’impero permane, ma mutata, grazie al sangue delle legioni cristiane.



3. Il viaggio, lo straniero, la radice

La dimensione itinerante, la “stranieritudine”, l’appartenenza salda alle origini possono forse costituire le declinazioni dell’anima antica e dello spirito moderno? Consideriamo i grandi paradigmi filosofico-cognitivi dell’Occidente incarnati in Enea, Abramo e Ulisse, ebbene, ognuno di essi, nella sua tipicità, è archetipo originario e originante l’anima propria d’Europa. Il pius Enea, profugo da Troia all’Italia per volere del Fato, il padre della fede e il polymetis precursore della Grecità quale madre della filosofia sono a fondamento dell’identità razionale e spirituale dell’Occidente. L’amor patrio, l’amore per la conoscenza, l’amore per Dio fondano il contenuto proprio della missione dei tre. Il Fato, gli dei e Dio sospingono i moti degli eroi e nel viaggio verso il Lazio o Canaan o Itaca, la metafora itinerante dell’uomo quaerens conduce e sospinge lungo la via che dispiega la conoscenza di sé: gnothi seauton. Enea, eroe virtuoso della pietas, vir ante litteram, che cerca patria ai Penati di Troia è emblema del dovere e del rispetto verso gli dei e verso gli uomini; Ulisse, re della terra di nessuno, sospinto al largo dal non domato spirito, vivrà su di sé l’identità di molti e nessuno, il peso e l’onore d’essere xenos in terre lontane e straniero mendicante in patria. Abramo, patriarca di tre fedi, intraprende consapevolmente l’odòs della conoscenza spirituale, che lo porterà all’abbandono dell’idolatria per abbracciare la fede in un solo Dio vero. Egli conquisterà più di una terra, più di un popolo, più di una legge, conoscerà se stesso in Dio; Ulisse si troverà a intraprendere la via della conoscenza umana in virtù di un capriccio divino, ma attraverso la mètis, come qualcuno ha scritto, riuscirà a mutare il suo destino di condanna in un privilegio di conoscenza. La conseguenza di tutte le sorti è, in sostanza, quella di divenire viandanti e stranieri. Abramo si metterà in cammino sollecitato da una voce divina che lo inviterà ad abbandonare se stesso e la sua identità per farsi altro da ciò che è, altro da sé in una terra promessa che sarà patria dell’universale umano e non confine del solipsismo nazionalista di Israele[16]; Ulisse intraprenderà il nostos indefinito che mai approderà a meta ultima, ma sempre si costituirà come una deriva “per seguir virtute e canoscenza” (Dante, Inf. XXVI, v.120)[17]. Il mare azzurro sempre lo sospingerà oltre e mai terra alcuna calcherà stabilmente il piede suo, sicché sempre un’ultima onda lo sommoverà ad altri lidi e mari altri.[18] Nel farsi straniero Abramo diviene il “padre dei popoli”, il viandante nel deserto che conquisterà per tutta l’umanità la dignità di una relazione etica con la terra; Enea, l’inquieto fuggiasco virgiliano, fa del suo “male di vivere”, del suo essere peregrino virtus, stemma di humanitas ideale, ricerca esistenziale del bello e del buono, del valore e del costume, della pietà e dell’onore che a meta ultima e provvidenziale approda a fondare l’eterno, Roma; Ulisse, nel suo peregrinare, vivrà le vite di molti, vivrà esistenze altre, ma mai Unesistenza propria e identitaria. Ulisse tornerà ad Itaca da straniero, sotto le spoglie di un mendicante e riconquisterà il suo status di basilèus, ma è la condizione di errante, di viandante straniero a costituire il senso del suo essere umano, del suo essere Ulisse, il paradigma cognitivo razionale dell’Occidente. Allo stesso modo quando in Gn 23, 4 Abramo afferma: “sono Straniero e abito (risiedo) con voi”, connota il proprio essere come un essere residente e straniero. Deve risiedere per dar luogo all’altro e allo stesso tempo deve essere straniero a se stesso per conoscersi e mostrare il proprio volto all’altro. Abramo è pàroikos kai parepìdemos[19] e la terra che abita è paroikia, è il luogo in cui si peregrina come ospiti. Il viaggio e la condizione di straniero sono le dimensioni fondative dell’Occidente: solo il viandante straniero ha la dignità di risiedere nella terra dell’universale umano.[20] Se il viaggio e la “stranieritudine” stabiliscono una segreta corrispondenza o philia fatale fra il “pietoso” eroe, il padre dell’Alleanza e l’ondivago re senza meta, ciò che li separa sostanzialmente è la loro relazione ad un genos, una stirpe che possano chiamare propria. Se Ulisse vaga fra l’onde di mari e di terre, di popoli e di immortali, il suo non-dove, la sua meta non-ultima resta costante in Itaca: la reggia assediata, il tripudio turpe dei pretendenti, il figlio erede e l’operosa Penelope. La ricerca di se stesso permane in Ulisse salda alla propria stirpe, che intona richiami amorosi all’eroe, l’eroe del nostos, del ritorno a là onde egli era venuto. Al genos antico mai abbandonato, si oppone una radice diversa che lacera se stessa e si divelle dalla terra patria per fondare una nazione altra, in cui di nuovo si nasca di-versi. Canaan come Roma, Abramo come Enea, pellegrini per volere del divino. Il Dio di Abramo diede al suo popolo una terra che non avevano lavorato, abitazioni in città che non avevano costruito e frutti di vigne e oliveti che non avevano piantato.[21] La radice nuova di Israele fa esperienza della propria identità come straniera, non-autoctona, secondaria. Similmente Enea e l’Impero. Le radici si s-radicano e rifondano perennemente novae, alterae, dall’antico al nuovo, dal nuovo all’antico. Ebrei, Greci, Romani, Troiani, Cristiani: «la questione dell’identità culturale dell’Europa […] è indissolubilmente legata alla questione del rapporto dell’Europa con le altre civiltà, precedenti e/o esterne a essa. Per l’Europa, il rapporto con sé passa attraverso il rapporto con l’altro».[22]



4. Le radici dell’Occidente

L’Europa è un continente, continens, «un contenitore aperto all’universale»[23], essa non ha una cultura ma è una cultura.
Le sue radici? Risponde Brague:

Che immagine strana... Perché considerarsi come una pianta? In gergo francese, “piantarsi” vuol dire sbagliarsi, o fare un errore… Se si vogliono a ogni costo delle radici, allora diciamo con Platone: noi siamo degli alberi piantati al contrario, le nostre radici non sono sulla terra, ma in cielo. Noi siamo radicati in ciò che, come il cielo, non si può afferrare, sfugge a ogni possesso. Non si possono piantare bandiere su una nuvola. E noi siamo anche animali mobili. Il cristianesimo non è riservato agli europei. È missionario. Crede che ogni uomo abbia il diritto di conoscere il messaggio cristiano, che ogni uomo meriti di diventare cristiano.[24]


Senza radici, dunque, in senso missionario o epigenetico, come hanno sostenuto J.-C. Passeron e P. Veyne.[25] Lettura prediletta, se così possiamo definirla, del Cardinal Angelo Scola, l’opera di Rémi Brague, con la sua teoria della secondarietà romana e cristiana, ha offerto una pluralità di riflessioni che, dall’antico al moderno, procedono nell’unica direzione dell’avvenire.
Nelle opere Il valore dell’uomo e Una nuova laicità Scola cita il pensiero di Brague, mentre riflette sui concetti di identità e unità dell’Europa. L’Europa, questo “meticciato di civiltà e culture”, come l’ha definita il patriarca di Venezia, ha le sue radici tanto in Occidente quanto in Oriente, anzi forse sarebbe storicamente più corretto invertire la primazialità dei termini e rintracciare i germogli culturali dell’Europa in Oriente e successivamente, in continuità ideale, trapiantati in Occidente per essere ricreati, rifondati dall’antico sul nuovo e dal nuovo sopra l’antico. «[…] oggi l’Europa ha smarrito il senso della secondarietà che a me piace rappresentare – dice Scola - con la figura di Enea quando lascia Troia in fiamme portando sulle spalle il padre Anchise e tenendo per mano il figlioletto Julo». Cara è quest’immagine virgiliana al cardinale, il quale la considera icona figurativa di una renovatio. «Enea prende l’antico e lo innesta sul nuovo», mediante una consecutio ininterrotta di generazioni: Anchise, il passato; Enea, il presente; Julo, il futuro. Una triade temporale, una “trinità” fondativa, a cui l’arte ha dato aspetto e volto, basti pensare all’Enea in fuga del Barocci o al gruppo scultoreo del Bernini, in cui il principe troiano fuggitivo verso non-dove, sorregge virtuoso il mos maiorum e i Penati di Anchise, la cui memoria è rivolta al passato. Fisso nel vuoto, senz’altra direzione che la presente, lo sguardo di Enea procede indistinto. Tre sguardi di-versi quelli del gruppo scultoreo, in cui l’unico timido accenno futuro è dato dalla fiammella tra le mani del piccolo Julo, speranza accesa su ciò che sarà. Enea, si sa, fuggiva da Troia, quell’odierna Truva di Turchia (sulle colline di Hissarlik?), in Oriente, e a lui Roma demandò la fortuna e la gloria dei suoi Augusti e del suo Impero. Viene da Oriente dunque la radice dell’Urbe? Sì. E se con la mente corriamo nei secoli fino a Paolo, apostolo delle genti, sarebbe lecito domandarci: ma il Cristianesimo è d’Oriente o d’Occidente? Ex oriente viene la Parola che, tuttavia, universale, si fa seconda e si fonde all’Impero di Roma ad occidentem. Un Impero già in sé katholikos prima di Cristo e che al cattolicesimo cristiano dà sostrato e volto. Che senso ha un’affermazione di tal genere? Chiarisco i termini del discorso, ringraziando una illustre studiosa, la professoressa Marta Sordi, per aver saggiamente illuminato i percorsi conoscitivi del sapere storico, relativo al mondo classico, lungo quella miriade di affermazioni distorte, omissive e poco chiare, se non confuse, che caoticamente inebriano pulpiti e menti. Con una limpidezza disarmante e tecnicamente indiscutibile, in un’intervista pubblicata su Avvenire il 30 ottobre 2004, in quel turbinoso tumulto di dibattiti e recriminazioni su laicismo o cristianità dell’Europa, alla domanda “Radici romane o radici cristiane?”, la Sordi diede forse l’unica risposta storicamente e spiritualmente corretta: «Non c’è contraddizione: c’è innesto e reciproca, cordiale integrazione. Si ricordi che Roma è già “cattolica” prima di diventare cristiana […] Nel senso letterale: “cattolico” vuol dire universale, e l’antica Roma fu proprio questo, l’integrazione di ogni popolo entro il diritto universale. […] Roma, dice Sallustio, fa di popoli diversi per sangue, lingua e costumi una concordis civitas».[26] Nell’affrontare l’annoso problema dell’Europa e dei suoi rapporti con il Cristianesimo, anche Scola ha proposto una riflessione non dissimile, tratta da uno stralcio del pensiero di T.S. Eliot su eredità culturale e destino d’Europa: «Il mondo occidentale ha la sua unità in questa eredità, nel Cristianesimo e nelle antiche civiltà della Grecia, di Roma e d’Israele, alle quali, attraverso duemila anni di Cristianesimo, noi riconduciamo la nostra origine. […] Se noi disperdiamo o gettiamo via il nostro comune patrimonio, allora tutte le organizzazioni e i progetti delle menti più ingegnose non ci gioveranno, né contribuiranno ad unirci». L’idea di Eliot, che vede il presente come memoria attuale del passato, in cui vita può esserci perché c’è morte e in cui Dante può esistere perché a lui prevennero Omero, Enea, Virgilio, Paolo non fa altro che inventar la novità futura e gettar lume alla memoria già essente. Ripercorriamo per un istante nella memoria quella modesta recusatio dantesca, ritrosia artificiosa del sommo poeta dinanzi alla missione sua, che rimembra con timore l’inadeguatezza di chi eroe non è eppure viene vocato a sostenere un cammino secondario, epigonale a eminenti figure a lui precedenti:

Io non Enëa, io non Paulo sono[27]

Apparecchiato a sostener la guerra del cammino e della pietate, Dante, con reverenzial timore e senso di inadeguatezza propone al suo maestro una titubante e restia volontà o possibilità d’esser viaggiatore nei regni eterni come il parente di Silvio agli Inferi e come il vas d’elezione nei Cieli. Eppure, al di là della fictio letteraria, Dante si pone terzo in continuità storica col troiano Enea e l’alto effetto imperiale e col cristiano di Tarso e di Roma, apostolo del Cristo risorto e la sua predicazione della fede «ch’è principio a la via di salvazione».[28] L’Oriente che si innesta sull’Occidente nel primo caso; di nuovo l’Oriente delle province di Roma che veicola il proprio Credo lungo le vie dell’impero d’Occidente, nel secondo.[29] Sintesi dialogica tra mondi e culture, tradizioni e lettere, filosofia e storia da un capo all’altro della nostra antica-attuale Europa in fieri: anche la Commedia di Dante reca in sé i germi di una secondarietà ante tempus, matrice dell’identità europea, romanamente intesa. Nella terra del tramonto, la vis dantesca esalta il nerbo della cultura dei popoli senza distinguere fra Virgilio pagano e Paolo cristiano o tra Omero «poeta sovrano» e i musulmani Saladino, Avicenna, Averroè del Limbo.[30] Chi è superiore tra essi? Tutti! Chi eliminare tra gli spiriti sapienti che hanno reso grande l’humanitas? Nessuno! Il cantore fiorentino ragiona con la mente di un genio cattolico, nel senso di “universale”, di un genio romano, nel senso di “secondario”. Non c’è il Medioevo nelle sue parole, c’è già l’Umanesimo, il Rinascimento, il futuro attuale, politico e spirituale dell’Europa stessa. L’Europa della contraddizione non-contraddittoria, della concordia discors, l’Europa del meticciato di Scola, l’Europa romano-cristiana di Brague e Sordi, l’Europa della croce e del minareto, l’Europa che afferma “Io sono” perché “Tu sei”, l’Europa di Enea e Paolo, di Dante e Virgilio, l’Europa dell’Humanitas.
Nel 1924 Paul Valéry, nel suo saggio La crisi del pensiero, scrisse: «Ovunque i nomi di Cesare, di Gaio, di Traiano e di Virgilio, ovunque i nomi di Mosé e di San Paolo, ovunque i nomi di Aristotele, di Platone e di Euclide hanno avuto un significato e un’autorità simultanei, ebbene proprio lì si trova l’Europa».[31] Non occorre, tuttavia, andar così in là negli anni per sentir pronunciate tanto belle e motivate affermazioni, torniamo, anzi partiamo dai primi del Trecento e, senza troppo stupore, scopriremo che il Limbo di Dante è già l’Europa. Il nobile castello, che si erge maestoso è la “regione degli Eguali” di Hugo, è la perfetta dimora di quello «spirito culturale generale, che attrae nella sua orbita l’umanità intera», l’umanità storica che dalla filosofia e nella filosofia, attraverso la filosofia modella la propria facies spirituale ed esistenziale. In quel nobile castello impèra la «conoscenza teoretica infinita» della grecità filosofica di Husserl. Pensiero teologico e filosofia si avvolgono e avvicendano dall’Inferno al Purgatorio fino in Paradiso, manifestandosi in volti e spiriti di femmine e viri possenti, che grande hanno reso il mondo. Se il futuro di ciò che chiamiamo Occidente è, secondo Brague, in quella via romana della “secondarietà”, così per il genio Dante, già nel Trecento, è così evidente riconoscersi non secondo, ma addirittura “sesto”, dopo il senno di quanti avanti a lui furono poeti sovrani, signori de l’altissimo canto e maestri di color che sanno. Dante china il proprio possente ingegno alla maestria autorevole della sua guida oltremondana, vissuta sub Julo, sotto il dominio di dei falsi e bugiardi, eppure la sua Weltanschaaung così moderna, così attuale, così europea, in senso spirituale, non misconosce in alcun modo né il peripato o il ginnasio, né il pagano o il musulmano, ideandosi prosecutore morale, in spirito e verità, di quell’universale afflato d’anima europeo, che tutti li ricomprende e nessuno esclude. Cosa vuol dire “essere europeo”? Cosa vuol dire “essere romano”? Cosa vuol dire “essere cristiano”? Il senso è l’universale, il katholikos, il dialogos, l’identità e l’alterità, l’identità nell’alterità e la dialogicità quale essenza dell’essere Sé in Altro e Altro nei Sé dialoganti.
L’Europa è un patrimonio di diversità, consapevolezza che ogni singola identità non è legittimata ad imporsi come universalità, se non nella misura in cui accolga in se stessa quel non-identico, quell’alterità che ne costituisce il fondamento identitario: essa è una peregrina societas. «I popoli sono unità spirituali» scriveva Husserl,

per quanto le nazioni europee possano essere nemiche, tuttavia esse hanno una particolare affinità spirituale, che le accomuna e che travalica tutte le diversità nazionali. [...] noi sentiamo che nella nostra umanità europea è innata un’entelechia che permane attraverso tutti i mutamenti delle forme di vita europee e conferisce ad essi il senso di uno sviluppo verso quella forma di vita e di essere che costituisce il suo eterno polo ideale.[32] 

Proseguiva il filosofo chiedendosi

come si caratterizza la forma spirituale dell’Europa? Europa qui non va intesa geograficamente, in conformità cioè alla carta geografica, come se fosse possibile circoscrivere su questa base gli uomini che vivono sul territorio europeo e considerarli l’umanità europea. […] Il termine Europa allude evidentemente all’unità di una vita, di un’azione, di un lavoro spirituale, con tutti i suoi fini, gli interessi, le preoccupazioni e gli sforzi, con le sue conformazioni finali, i suoi istituti, le sue organizzazioni. Entro questa unità gli uomini agiscono raccolti in multiformi società di grado diverso, nella famiglia, nella tribù, nelle nazioni, in una comunione interiore e spirituale, e […] nell’unità di una forma spirituale.[33]

 Ebbene, proprio il richiamo all’umanità europea è significativo e introduce a riflessioni più intime su quell’idealità identitaria e universale verso il cui perseguimento hanno lavorato e lavorano spiriti magni, da secoli. «Oggi le vecchie nazioni europee sono impegnate a realizzare una nuova e più grande nazione, che le comprenda tutte e, senza annullare la fisionomia di ciascuna, le confederi in un’unità fondata sulle comuni radici culturali non meno che sui comuni interessi»[34], così Mario Scotti definiva il processo di europeizzazione in atto nel mondo moderno. Tralasciando i “comuni interessi” che possono essere politici ed economici, ma non spirituali, voglio richiamarmi invece alla questione delle radici culturali. S’è già chiarito sopra, grazie all’intervento della prof.ssa Sordi, come non ci sia disaccordo fra romanitas e christianitas, così come discordia non ha motivo d’esserci sull’istituire una costituzione d’Europa richiamandosi alla Grecia, a Roma e al Cristianesimo, sebbene quest’ultimo crei una disaffezione maggiore tra gli strenui fautori del laicismo incontaminato.
Quando si parla di unione di Stati non ha più senso, quasi, il definirsi in maniera autarchica, autoctona, laica o atea, pur di rendersi idealmente aperti alla miriade di Altri che con questo Sé definito/in-definito possano venire in contatto. Un’esistenza in-creata, radici ex-nihilo non hanno ragione d’esistere nella Storia, pertengono piuttosto alla teologia e a Dio. Il Dio dei Cristiani veniva dall’Oriente, era un ebreo di Nazareth; le lingue dei popoli europei hanno una derivazione latina e latino è l’alfabeto delle scritture d’Europa; il nostro sistema numerico è arabo e persino il nostro cibo non è solo nostro ma ha provenienza altra, straniera. Siamo ciò che siamo perché abbiamo edificato la nostra identità sull’alterità, il nostro ego sum sul tu es: essere stranieri a noi stessi, canone riflessivo del Sé che si apre ad accogliere l’Altro e, nel suo accipere alium, noscit se ipsum.


5. Conclusione

Il genio della Romanità e della Cristianità comprende la sua radice essere nata in altro, e così come Roma è germoglio di Troia, Gerusalemme, Atene, Pietro è successor di Roma e Cristo. Siamo ciò che siamo stati e saremo, nello specchio dell’Altro, di ciò che non siamo, del di-verso, vasi eletti a contenere il nostro e l’Altrui per versare ad Altro eredità e memoria di un passato nel presente al futuro. «L’armonia europea è dià-logos e pòlemos: dialettica tragica», come ha fatto notare Massimo Cacciari ne L’Arcipelago.[35] Il binomio dialettico Identità-Alterità e la Secondarietà teorizzata da Brague costituiscono la matrice dell’Infinito culturale dell’anima d’Europa: concordia discors, unitas-humanitas spirituale. È in questa coincidenza relativa di opposti, av-versi/di-versi, in una superiore riaffermazione dell’identità europea come consapevolezza dialogica che la Chiesa, erede dello spirito secondario che fece di Roma un impero katholikos, è chiamata e chiama se stessa a divenire garante di un futuro orientato alla ricomprensione universale dell’anima europea come complessità e sintesi di entità storico, religiose e politiche sostanzialmente diverse e idealmente identiche. È in tale direzione che la “voie romaine” conduce lungo quel ponte fra Occidente ed Oriente, che forse l’entrata nell’UE della Turchia potrà rappresentare, al di là del veto di Ratzinger non ancora papa, che pure, nel considerare anomalo un paese di fede islamica come membro di un Ideale, l’Europa, a forte connotazione storico-radicale cristiana, ora lo benedice, da pontefice, e benedice l’Islam, nella consapevolezza della dia-logicità intrinseca al Cristianesimo stesso, fin dalle parole di Giovanni, cantore di quel Logos, Parola e Ragione che è Verità unificante, prospettiva di un ecumenismo civile dei popoli, al pari dell’antica oikoumene greco-romana. Verità che, in termini di relazioni, porta a riconsiderare i rapporti tra Europa orientale e Europa occidentale, fra Europa e non-Europa, fra Cristianesimo ed Islam, radici complesse e non univoche, le quali esigono una più alta comprehensio, accoglienza e comprensione, contro il rischio di diffondere la creazione di una “religione civile” d’Europa di matrice cristiana, un presunto “caposaldo etico” totalizzante, esclusivo di quel “meticciato” culturale, storico, religioso e sociale che l’Idea-Europa è, nel suo concepire, nel suo cum-capere sotto un unico blasone universale Ebrei, Cristiani, Musulmani. Il respiro ampio di un’idea necessita di due polmoni, come scrisse Giovanni Paolo II: «On ne peut pas respirer en chrétien – je dirais plus: en catholique – avec un seul poumon; il faut avoir deux poumons, c’est-à-dire oriental et occidental».[36]






[1] R. Brague, Europe, la voie romaine, Criterion, Paris 1992, tr. it. A. Soldati, Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa, Rusconi Libri, Milano 1998, passim. Il corsivo “secondarietà” è mio.
[2] Ibid., p. 53
[3] Hor., Epist., II, 1, 156
[4] Cfr. A. Preti, Il terzo escluso. Psicopatologia del rapporto con l’altro, in Annali della Facoltà di Scienze della Formazione. Università di Cagliari. Nuova Serie, 2006, XXIX, pp. 303-327
[5] F. Chabod, Storia dell’idea di Europa, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari 1961, passim
[6] J. Ratzinger – M. Pera, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Arnoldo Mondatori editore, Milano 2004, p. 104 «[…] Il principio cattolico contrasta con il sistema della Chiesa di Stato: esso sottolinea il carattere universale della Chiesa, che non coincide con nessuna nazione e con nessuna comunità statale, vive in tutte le nazioni e, malgrado la fedeltà al proprio paese, crea comunque una comunità che va oltre i confini nazionali.» È innegabile rintracciare nelle parole di Ratzinger lo stesso tipo di universalità sovranazionale che era tipica dell’impero di Roma, benché qui si parli di sovranazionalità religiosa, che ben poco ha a che fare con l’idea politica di nazione e nazionalità e molto più è attinente allo spirito universale dell’umanità intera.
[7] R. Brague, op. cit., p. 180
[8] Cfr. F. Chabod, op. cit., passim
[9] M. Sordi, L’eredità politica del mondo classico, in Id., Alle radici dell’Occidente, Marietti 1820, Genova 2002, p. 13
[10] Dante, Mon., II, 3, 17
[11] Voltaire, Le siècle de Louis XIV, cap. II
[12] Cfr. M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997
[13] R. Brague, op. cit., p. 169
[14] H. Fuhrmann, Einladung ins Mittelalter, C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung (Oscar Beck), München 1987, tr. it. P. Vasconi, Guida al Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2004, p.157
[15] Il riferimento è alla Donatio Constantini.
[16] Cfr. M. Ovadia, L’esempio di Abramo, in La Repubblica (30 maggio 2007)
[17] Vd. U. Saba, Ulisse: “Oggi il mio regno / è quella terra di nessuno. Il porto / accende ad altri i suoi lumi; me al largo / sospinge ancora il non domato spirito / e della vita il doloroso amore.”
[18] Cfr. G. Pascoli, Poesie, Calypso, passim
[19] LXX; Sal. 39, 13
[20] M. Ovadia, cit., passim
[21] Cfr. Giosuè 24, 13
[22] R. Brague, op. cit., p. 149
[23] Ibid., p. 151
[24] Tratto dall’intervista di G. Valente a Rémi Brague, 30Giorni (ottobre 2004)
[25] P. Veyne, Quand notre monde est devenu chrétien (312-394), Albin Michel, Paris 2008, tr. it. E. Lana (a cura di), Quando l’Europa è diventata Cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l’impero, Garzanti, Milano 2008, p. 165 «[…] L’Europa non ha radici, né cristiane né di altro tipo, si è formata attraverso stadi imprevedibili, infatti non ha una componente originale in particolare. Non è preformata nel cristianesimo, non è lo sviluppo di un germe, piuttosto è il risultato di un’epigenesi […]». Cfr. J.-C. Passeron, Le raisonnement sociologique, un espace non poppérien de l’argumentation, Albin Michel, Paris 2006
[26] Tratto dall’intervista di M. Blondet a Marta Sordi, Avvenire (30 ottobre 2004)
[27] Inf. II, 32
[28] Inf. II, 30
[29] Cfr. Peter Partner, Duemila anni di Cristianesimo, Einaudi, Torino 2001 e 2003
[30] Cfr. Inf. IV, 88-144
[31] Cfr. P. Valery, La crise de l’esprit, in Oeuvres, Pléiade, t. 1, pp. 988-1014, tr. it. S. Agostini (a cura di), La crisi del pensiero e altri saggi “quasi politici”, Il Mulino, Bologna 1994, p. 55
[32] Cfr. E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, in Id., Crisi e rinascita della cultura europea, R. Cristin (a cura di), pp. 54-55
[33] Ibid., p. 53
[34] M. Scotti, L’Europa nel pensiero e nella poesia di Dante: motivi attuali della sua concezione politica, da www.indire.it/leggeredante/, pubblicato per concessione degli eredi, lo scritto risale al luglio del 2003 ed è inedito, p. 3
[35] M. Cacciari, op. cit, p. 21
[36] Giovanni Paolo II, «Discorso alla nunziatura di Parigi», La documentation catholique, n. 1789, 6/7/1980, p. 634

Nessun commento:

Posta un commento